I TUOI OCCHI SU DI ME
La prima volta era accaduto per caso.
Lavoravo alle sue dipendenze da circa un anno e, come ogni mattina, ero intenta a eseguire la rigida e ripetitiva routine che anticipava la sua uscita di casa.
Andava a correre tutti i giorni, non importava che piovesse, nevicasse o facesse un caldo insopportabile, lui usciva di casa alle 5.30 e tornava un’ora dopo.
Appena rientrato si recava in cucina, dove io lo aspettavo con un educato sorriso dipinto in viso e il caffè nero bollente pronto.
“Buongiorno Isabella”, mi salutava sempre così, mentre prendeva posto al tavolo apparecchiato per una persona.
“Buongiorno, signore”, avevo risposto io di rimando, seguendo il nostro solito canovaccio, “il caffè è pronto. Cose le servo per accompagnarlo?”
“Cosa abbiamo di buono?”
“Torta ai lamponi o biscotti al burro di Antoine”.
“Prenderò i biscotti", aveva detto e poi, un istante dopo cambiando argomento, aveva aggiunto: "Isabella... oggi indosserò il completo blu di Gucci, quello scuro, non quello chiaro. Camicia bianca e gemelli in platino di Cartier, grazie”.
Quel grazie significava che avevo tempo mezz’ora per salire nella cabina armadi, prendere ciò che aveva elencato, stirare la camicia, anche se era già perfetta, e riporre il tutto nel camerino in cui si vestiva, accanto al bagno in cui andava a fare la doccia dopo la colazione.
Quella mattina tutto si era svolto come sempre.
Avevo appena appeso gli abiti ai ganci in ottone del suo camerino, quando avevo sentito un suono.
Era tanto che non sentivo un suono del genere, anche perché era tanto che non facevo l’attività che di solito causava un suono del genere.
Un. suono. del. genere.
Avevo lasciato Jacob subito dopo aver trovato questo impiego. Vorrei poter dire che le ragioni fossero altre, vorrei poter dire che lui mi tradiva o che avevamo avuto gravi problemi di coppia.
Ma non era così.
Era stata l’attrazione che sentivo per il mio nuovo datore di lavoro ad avermi impedito di portare avanti la tiepida relazione che avevo con lui.
Malgrado, dunque, io non facessi sesso da mesi, il suono che avevo udito era inequivocabile.
Ero rimasta immobile e poco dopo avevo sentito un altro suono simile.
Mi ero voltata e avevo notato la porta del bagno leggermente dischiusa.
Ero rimasta paralizzata per qualche secondo.
Non mi fraintendete, non ero scioccata o in preda alla vergogna, e lasciate che vi dica una cosa: non avevo accettato questo lavoro solo perché ben pagato, l’avevo accettato soprattutto per lui.
E sempre a causa sua, nei mesi che avevano seguito la mia assunzione, avevo smesso di cercare altri impieghi che mi permettessero di mettere a frutto la mia laurea in letteratura inglese.
Insomma se il soggetto a cui prestavo i miei servizi non fosse stato chi era, o meglio, se non fosse stato com’era, avrei levato le tende molto presto.
Edward Cullen era infatti l’uomo più attraente che avessi mai visto. E non parlo soltanto di uomini incontrati di persona, parlo anche di quelli esposti su riviste di moda e attori pagati milioni di dollari.
Lui era decisamente meglio.
Un banale colloquio di lavoro per un impiego altrettanto banale e il mio mondo aveva fatto un giro di trecentosessanta gradi.
Mi ero immediatamente dimenticata di Keats, Yeats, Shakespeare e di tutti i miei piccoli sogni di gloria.
Mi ero immediatamente dimenticata di Keats, Yeats, Shakespeare e di tutti i miei piccoli sogni di gloria.
L’idea di lavorare per lui era diventata improvvisamente molto appetibile e quando avevo ottenuto il posto mi ero sentita realmente al settimo cielo.
Che volete che vi dica? Sono una donna con gli ormoni fuori controllo.
Dopo qualche mese mi era stato offerto un contratto temporaneo in una scuola media come sostituta di un’insegnante in maternità.
Stavo per accettare, più per dovere e buon senso che per convinzione, ma lui aveva immediatamente fatto una controproposta in denaro che non avevo potuto rifiutare o, forse, erano stati il suo sguardo e il suo profumo, nel momento in cui mi pregava di non lasciarlo, a convincermi.
Il fatto è che dall’istante in cui avevo posato gli occhi su di lui ero come soggiogata da uno strano incantesimo e se vi sembra incredibile è solo perché non lo avete mai visto.
Ma sto divagando.
Dicevo, dunque, di quei rumori e di quella porta leggermente aperta.
Non avevo saputo resistere, anzi, non avevo voluto.
Era l’occasione che sognavo da mesi.
Mi ero avvicinata e avevo fatto attenzione a non toccare il battente.
Per una meravigliosa legge della percezione visiva io lo vedevo benissimo ma lui non poteva vedere me.
Era nudo.
In posizione frontale.
Una mano avviluppata intorno al sesso eretto.
Un sesso che anche da quella distanza si distingueva perfettamente viste le dimensioni e la consistenza.
Insomma, se non si fosse capito, molto grosso, molto duro e molto spesso.
Il più bel cazzo del pianeta, in sintesi.
Mi era scappato un gemito e, subito dopo, i suoi movimenti si erano fermati.
Era rimasto immobile, sotto l’acqua che scendeva copiosa lungo le linee perfettamente disegnate del suo corpo e che rendeva quella visione ancora più erotica.
Il suo languido sguardo chiaro si era spostato verso la porta, verso di me, e per un istante avevo temuto che avesse capito che ero lì, nascosta a spiarlo.
Poi, però, aveva ripreso a pompare la sua meravigliosa asta turgida.
I miei occhi incollati ai suoi movimenti sempre più impazienti, sempre più veloci.
Lui aveva iniziato a gemere. In risposta le mie ginocchia avevano tremato e il bisogno di toccarmi si era fatto insopportabile.
Eccitata come mai lo ero stata in vita mia, mi ero infilata una mano nelle mutandine continuando a fissarlo.
I suoi occhi si erano fatti scuri di lussuria, aveva sussurrato qualcosa, aveva chiuso le palpebre, lasciato cadere la testa all’indietro e aveva schizzato fiotti di piacere sulla vetrata trasparente che ci divideva.
Io ero corsa in camera mia a finire ciò che avevo iniziato e, sdraiata sul mio letto, ero venuta gemendo il suo nome.
Come ho detto, la prima volta era accaduto per caso.
Quelle successive invece...
Da quella mattina mi ero trasformata in una voyeurista della peggior specie.
Quando lasciava la porta socchiusa lo spiavo, quando invece la chiudeva bene, la aprivo io e... lo spiavo.
Non sempre si masturbava; a volte, si lavava e basta ma lo faceva con tale grazia ed eleganza mascoline da farmi godere esattamente come quando si toccava con altro intento.
A dire la verità avrebbe potuto stare anche immobile sotto quel getto d’acqua e io avrei avuto un orgasmo comunque.
Questa cosa era andata avanti per un paio di mesi, fino al giorno in cui avevo ricevuto la lettera con la quale venivo informata d’avere vinto un concorso molto importante.
Una cattedra in una scuola superiore, un istituto cattolico privato per ragazzine di buona famiglia, un lavoro a cui non potevo proprio rinunciare e che sarebbe iniziato la settimana successiva.
Quella mattina il signor Cullen era tornato dalla solita corsa e aveva ordinato la torta di ciliegie.
Dopo averlo servito, invece di andarmene a stirare la sua camicia, mi ero fermata dicendogli che dovevo parlargli con urgenza.
Lui aveva alzato lo sguardo dal Times, che sempre leggeva mentre faceva colazione, e mi aveva chiesto, con educazione, se la cosa non potesse aspettare la sera.
In mano tenevo la lettera di dimissioni e in gola un groppo che quasi mi impediva di parlare.
“Ci vorrà solo un minuto, signore”, avevo risposto, porgendogli la busta, senza riuscire a guardarlo negli occhi.
Lui aveva appoggiato da un lato la piccola forchetta d’argento che teneva in mano, aveva afferrato la lettera, l’aveva letta, ed era poi rimasto in silenzio per minuti lunghissimi.
Alla fine, non sopportando più quella tensione, avevo parlato io: ”È un lavoro a cui non posso rinunciare. Me ne vado a malincuore, signore, mi creda, ma ho studiato molto per laurearmi e quello è il posto che sogno da sempre”.
Si era alzato da tavola e mi aveva sollevato il viso con un dito, obbligandomi a guardarlo negli occhi da vicino.
Le sue labbra, già naturalmente rosse, grazie al succo di ciliegia che le aveva bagnate, avevano preso un colore sanguigno. L’istinto di morderle era stato quasi impossibile da controllare.
“Capisco, Isabella”, aveva sussurrato vicino alla mia bocca.
Poi mi aveva fissata con un’intensità da spezzarmi il fiato.
“Ora vado a farmi la doccia".
Si era alla fine alzato e aveva abbandonato la cucina, senza finire la colazione, lasciandomi di sasso.
Non aveva speso una parola nel commentare il fatto che me ne sarei andata.
Ero interdetta e delusa. Avrei voluto che tentasse almeno di trattenermi, che dicesse qualcosa, che mi confortasse, che mi incoraggiasse.
Invece niente.
Eppure, come la malata che ero diventata, gli ero andata dietro subito dopo. Nemmeno avevo pensato alla camicia. Ero corsa immediatamente verso il bagno.
La porta era completamente spalancata. Che diavolo...
Forse aveva deciso di saltare anche la doccia, alla fine.
Eppure l’acqua scorreva.
Stavo per uscire dalla stanza, incapace di guardare dentro il bagno questa volta, quando avevo sentito la sua voce.
“Isabella...”
Oh.
“Puoi entrare, se vuoi”, aveva continuato, “so che sei lì, come ogni mattina.”
Oh. Cazzo.
Avrei voluto scappare, andare in camera, preparare la valigia, correre via e non dovere affrontare la vergogna d’essere stata scoperta, ma i miei piedi la pensavano in modo diverso e, passo dopo passo, mi avevano portato davanti all’uscio del bagno.
Cullen era nudo, sotto l’acqua, e con il suo glorioso cazzo in mano.
Esattamente come quella prima mattina.
Si stava masturbando e mi stava fissando come se stesse fottendo me e non la sua mano.
Oh.
“Spogliati”, aveva ordinato.
“Cosa?”
“Ho forse balbettato, Isabella? Ho detto ‘spogliati’ ”.
“No, io...”
Aveva sorriso malizioso, mentre continuava a pompare lento la sua erezione, poi si era avvicinato al vetro trasparente.
“Davvero non vuoi unirti a me?”
“Non credo che...”
Era uscito dalla doccia.
Si era avvicinato lentamente, come un felino che punta la sua preda.
L’acqua continuava a scendere copiosa sul suo viso, lungo il suo corpo, fino al suolo, bagnando il pavimento.
Le sue labbra erano ancora rosse come il sangue e mi era venuto spontaneo chiedermi se sapessero ancora di ciliegia.
Avevo indietreggiato, ma lui era scattato improvvisamente, chiudendo la porta dietro di me e intrappolandomi contro di essa.
Aveva appoggiato le sue mani al mio petto, bagnando la camicetta leggera che indossavo, rendendola trasparente, poi era risalito con le dita fino al collo e aveva afferrato il lembi di quell’inutile indumento.
Mi aveva fissata come a sfidarmi, come a darmi la possibilità di fermarlo.
Io invece avevo chiuso gli occhi, avevo coperto i suoi dorsi con i miei palmi, avevo afferrato le sue mani e avevo strappato, con uno strattone violento, tutti i bottoni.
Il secondo dopo mi ero aggrappata ai suoi capelli fradici e lo l’avevo baciato con aggressività, riuscendo finalmente a mordere quelle labbra rosse e polpose, come sognavo di fare da mesi.
Da quell'istante era stato un insieme frenetico e confuso di azioni convulse, gemiti strozzati, movimenti nervosi e ordini ansimati.
Da quell'istante era stato un insieme frenetico e confuso di azioni convulse, gemiti strozzati, movimenti nervosi e ordini ansimati.
Lui aveva tirato giù la zip della mia gonna e io avevo lanciato le mie scarpe in un angolo.
Lui mi aveva sfilato le mutandine, io avevo strappato il mio reggiseno.
Lui mi aveva sfilato le mutandine, io avevo strappato il mio reggiseno.
Lui mi aveva presa in braccio ordinandomi di avvolgere le gambe intorno alla sua vita. Io avevo obbedito, come la brava assistente che ero, iniziando nel contempo a leccare la sua giugulare tesa e gonfia.
Un gemito strangolato era sfuggito alle sue labbra quando si era trovato con la punta gonfia del suo sesso appoggiato alle mie labbra calde e bagnate e il mio grido acuto di piacere aveva spezzato il suono dei nostri respiri affannati quando mi aveva schiantata contro le piastrelle tiepide della doccia e mi era entrato dentro con la prima spinta.
Un gemito strangolato era sfuggito alle sue labbra quando si era trovato con la punta gonfia del suo sesso appoggiato alle mie labbra calde e bagnate e il mio grido acuto di piacere aveva spezzato il suono dei nostri respiri affannati quando mi aveva schiantata contro le piastrelle tiepide della doccia e mi era entrato dentro con la prima spinta.
“Tutto questo l’ho sognato per mesi. Ogni fottutissima mattina, Isabella”, alla fine aveva parlato, strizzandomi le natiche al ritmo delle sue spinte, senza alcuna grazia, duro e determinato a godere dentro di me.
“Ho sognato le tue gambe così, attorno alla mia vita e il tuo sesso stretto, bagnato, caldo...”, mi aveva baciato con passione, poi mi aveva lasciata scivolare a terra, solo per riafferrarmi dai fianchi e voltarmi faccia la muro.
D’istinto avevo appoggiato i palmi sulle piastrelle lisce e mi ero inarcata.
L’acqua che scrosciava sui miei lombi e lungo le natiche aumentava il piacere che già era quasi insopportabile.
Con una mano aperta mi aveva avvolto il collo, obbligandomi a portare la testa all’indietro, con l’altra mi aveva afferrato un fianco.
Poi mi aveva penetrata di nuovo, così, da dietro, permettendomi, in questa posizione, di sentirlo tutto, fino in fondo, mentre mi apriva in due a ogni lenta spinta.
“Ho sognato di te anche così, il tuo culo, la tua schiena, i tuoi capelli bagnati e il tuo collo delicato tra le mie mani. Alla mia mercè.
Sapevo che sarebbe stato incredibile. Sapevo che ti saresti incastrata perfettamente a me.”
Le sue spinte si erano fatte progressivamente più potenti, decise, così intense da farmi perdere l’equilibrio.
Lui mi aveva afferrato con mestiere per i fianchi, baciandomi lungo la spina dorsale, mentre affondava veloce e duro, e gemeva il mio nome con la testa tra le mie scapole
Avevo chiuso gli occhi incapace di prolungare ancora l’attesa e mi ero lasciata travolgere dall’orgasmo più violento che avessi mai provato.
Qualche istante dopo avevo registrato vagamente una catena di profanità uscire dalla sua bocca e poi l’avevo sentito pulsare denso e caldo sulle mie natiche.
“Cazzo... lo sapevo...”, aveva ansimato ancora.
Poi mi aveva voltata con delicatezza, mi aveva preso il viso tra le mani e mi aveva baciata dolcemente, sotto l’acqua che continuava a scorrere.
Mi girava la testa per l’intensità di tutte quelle sensazioni, stavano per cedermi le gambe e il cuore premeva per schizzare fuori dal petto.
“Accetto le tue dimissioni, Isabella...”, aveva detto poi così, all'improvviso, in quel momento, spezzando l'incantesimo tra noi e un poco anche il mio cuore.
“Ce... certo signore.. Grazie..."
“Ma tu continuerai a vivere qui...”
“Cosa?”
“Fammi finire”.
“Si, signore”.
“Abbiamo già sprecato abbastanza tempo, non credi?”
Avevo deglutito e annuito, mentre lui mi fissava senza mollare il mio sguardo, con occhi sinceri e onesti.
Improvvisamente dolci.
“Ti ho desiderata dal momento in cui ti ho vista. E da quando lavori per me non ho più avuto una donna, nemmeno una compagna occasionale...", aveva chiuso gli occhi e poi aveva fatto un respiro profondo, "so che non ha senso, non lo ha nemmeno per me, ma credo d’essermi poi innamorato di te. È successo poco per volta, giorno dopo giorno, sempre di più. Mi dispiace non essere stato abbastanza forte da avvicinarti e confessartelo."
“Perché non lo ha fatto?”
“Eri fidanzata, no?”
“Si, ma l’ho lasciato parecchi mesi fa”, ero interdetta perché pensavo non sapesse di Jacob.
“Dovevi dirmelo, non lo sapevo”.
“Non pensavo le interessasse...”
Aveva alzato un sopracciglio e ad esso aveva unito un sorriso pieno, sexy e divertito: “Credo si possa lasciare perdere il “Lei” a questo punto, no? Abbiamo appena fatto l'amore contro il muro di questa doccia...”
Mi aveva accarezzato i senti delicatamente e si era appoggiato a me con il suo sesso ora morbido.
Avevo abbassato lo sguardo, rossa per l’imbarazzo.
Più che fare l'amore, avevamo appena scopato senza tanti fronzoli eppure mi veniva ancora naturale rivolgermi a lui con rispetto e atteggiamento formale.
“Guardami, Isabella!”
Avevo obbedito e i suoi occhi caldi si erano leggermente adombrati: “Avrei dovuto dirti che mi interessavi, è vero, ma dopo quella mattina in cui ho capito che eri dietro la porta e mi guardavi mentre mi toccavo e godevi nel farlo... non so come spiegarlo...”
“Miseria...”
“Miseria sì...”, aveva riso lui, cancellando con il suono melodioso della sua voce l’imbarazzo che provavo, “ogni volta mi dicevo che avrei chiuso il nostro gioco, poi me ne mancava il coraggio, non potevo rinunciare a te, anche se erano solo i tuoi occhi su di me...”, si era appoggiato di nuovo contro di me e mi aveva baciata ancora.
“Lo senti cosa mi fai? Cosa ho dovuto sopportare per mesi e mesi?”
Lo diceva lui a me? Davvero?
Lo diceva lui a me? Davvero?
L’avevo guardato con occhi ferini, eccitati e carichi di desiderio.
Era tutto chiaro nella mia testa, il nostro passato, il nostro futuro e soprattutto il nostro presente.
Non dovevamo più rinunciare a niente. La fantasia si era fatta realtà e la potevamo vivere come meglio credevamo.
Senza staccare i miei occhi dai suoi mi ero messa in ginocchio di fronte a lui
Senza staccare i miei occhi dai suoi mi ero messa in ginocchio di fronte a lui
“Mi permetta di farmi perdonare, signore”, avevo sussurrato con voce mielosa.
L’acqua scorreva su di noi, su di me, sul suo sesso che era di nuovo duro e pronto.
La sua mano mi aveva afferrata per i capelli.
I suoi occhi nuovamente scuri come carboni ardenti.
“Te lo permetto, Isabella”.
L’avevo preso in bocca, lentamente, tutto, pronta a servirlo ancora.
Pronta a servirlo per sempre.